mercoledì 31 marzo 2021

poesia di dario bellezza


Sono, ahimè, 25 anni oggi che è morto Dario Bellezza. Dico ahimè soprattutto perché per me la scoperta di Bellezza coincide con i miei anni di formazione, e quindi con la scoperta della vita. L’ho amato e lo celebro, nel mio piccolo, con la poesia (inedita in rete, mi pare, ma perfetta per i tempi) che chiude il primo libro suo che ho comperato, Poesie 1971-1996 (Mondadori). In tal senso, la prima vera poesia che ho amato è stata quella di Ungaretti, ma il primo poeta in carne e ossa è stato Dario Bellezza: da allora, nella mia testa, l’immagine di un poeta coincide fortemente con la sua. Bellezza era bello, cecato, bohémien, gattofilo, seduttore, pornografo, classicista e scroccone, tutte cose che nella vita ho provato a essere anch’io con minore classe e fortuna. Paradossalmente, l’ho visto in TV, al Maurizio Costanzo Show – e a Costanzo, nonostante molti oggi lo disdegnino, vanno riconosciuti questo e altri incontri fondamentali per la mia generazione, come quello leggendario con Carmelo Bene. Ecco quindi la poesia che chiude il libro. Viva la vita, la tua vita, angelo.

Di nuovo ecco la ripetizione:
non so a chi potrà interessare, detto
in prosa, dopo aver fornicato con pentole
e fornelli. Sono diventato un perfetto
casalingo, chiuso in casa, sognando
Dio o il misticismo. Scorro le novità
librarie: Teresa D’Avila, San Giovanni
della Croce: ma la mia croce qual è?
I gatti ridono sornioni, dentro
una cassetta, la loro casetta:
i giochi di parole mi stuccano, le rime
mi inquietano come muse spente e annegate:
la vita passa davanti alla stufa
di ghisa, eroina delle mie giornate.
Non so abbandonarmi al flusso del tempo:
la poesia è tutta digerita. Fuori
febbraio annuncia primavera;
partirò per la Sicilia, la Poesia
resterà unica padrona di Roma.
Telefonando avrò notizie,
scongiurerò eventi, crescite e rinascite,
sempre di meno in questo mondo infetto.

(Dario Bellezza, da Proclama sul fascino, 1996)

domenica 28 marzo 2021

the lost weekend


The Lost Weekend di Billy Wilder (1945), film bellissimo e tremendo sull'incapacità di dare una forma artistica, una regola e una ragione alla propria vita: ecco che il primo film esplicito sugli effetti della dipendenza dall’alcol è incentrato sulle vicende di uno scrittore in crisi, non più connesso né con la Musa né con se stesso. O come dice Birman, protagonista: il mancato suicidio di uno scrittore mancato. «La mia mente era appesa fuori dalla finestra – aggiunge alla fine, voce fuori campo – pendeva ciondoloni mezzo metro più in giù. Là in quell'immensa foresta di cemento armato, chissà quanti ce ne sono come me». Delle volte, leggendo le storie dei tanti autori che incrocio, non tutti all’altezza, non tutti frequentabili, me lo chiedo anch’io. Nel libro di Charles R. Jackson, da cui il film è tratto – che si pone come un controcanto veritiero del mito fin troppo abusato dello scrittore bello e alcolizzato –, non c'è un finale pacificato come nel film. Birman parla da un punto in cui ormai si è perduto, divorato per sempre dal proprio vizio. Come gli dice un infermiere dell’ospedale in cui viene ricoverato: «Non esiste alcuna cura per chi beve, a parte smettere di farlo. Ma quanti di loro ci riescono? Alla fine ritornato tutti qui». Nel film, che concede qualcosa al pubblico, forse una svolta ci sarà, ma d’altro canto – suggerisce lo stesso Wilder – è solo l'ennesima promessa di un ubriacone, a cui si può scegliere di credere, oppure no.

barattolo

Faccio una riflessione che parte da una trasmissione TV che ho visto ieri per la prima volta, e che cerca a suo modo di diffondere la poesia. L’intenzione è nobile, lo riconosco, eppure mi ha convinto poco il taglio del programma, il continuo richiamo al “pop” nella doppia accezione di “pop art” e di “popular”, nell’evidente tentativo di recuperare “visivamente” la poesia al gradimento del pubblico, rendendola “sciccosa”. Sempre di più, mi pare, in poesia si sta confondendo l’apertura, necessaria, con l’abbassamento. L’apertura presuppone un dialogo, più o meno alla pari, fra chi scrive e chi legge, comunque il tentativo di uno scambio basato sulla dignità dell’interlocutore, e sulla fiducia che si attribuisce a lui (interlocutore) nella lettura/ascolto e al testo (intermediario) nel comunicare il sentimento che lo muove. L’abbassamento, all’opposto, parte sempre da una situazione di disparità insanabile, dall’idea che uno dei due, o chi legge o chi scrive, sia più stupido dell’altro: o parla un linguaggio da alienato, oppure leggendo non potrà mai capire, e quindi devi “scendere” tu al suo livello, abbassarti, scimmiottarlo. Ne viene fuori, quasi sempre, un atteggiamento parodistico o denigratorio, di rifiuto, che a tratti sembra assumere, per giustificarsi, delle sfumature da lotta di classe che hanno il sapore del populismo spiccio: io sono contro il linguaggio alto dei poeti perché è linguaggio colto, intellettuale, che maschera col fumo l’irrealtà/inutilità delle sue visioni, ed è quindi lingua buona per gente che non lavora, che ha la pancia piena; non rendendosi conto che proprio col prevalere del linguaggio televisivo, la lingua dei padroni e quella del popolo ormai coincidono alla perfezione, sono tarate sulla stessa bilancia comunicativa, dove quella dei poeti non è che un residuo dialettale, che non andrebbe forzatamente “poppizzato” (tarandolo sulla bilancia di cui sopra) ma piuttosto difeso, e diffuso, nelle proprie irriducibili particolarità. Proprio come si fa coi prodotti agricoli a Km 0 rispetto a quelli in barattolo, se vogliamo trovare un paragone appropriato.

sabato 27 marzo 2021

coraggio

Ieri sera stavo vedendo questo film, La strada scarlatta di Fritz Lang, 1945, rifacimento americano di La cagna di Jean Renoir. Nel film Edward J. Robinson, pittore dilettante senza fortuna, viene raggirato da una coppia di malviventi i quali riescono a vendere i suoi quadri a una prestigiosa galleria, presentandoli come opera della donna del gruppo, l’avvenente Joan Bennett. Il pittore, scoperta la cosa, non si arrabbia, anzi le dice: «È una fortuna questa, se mi fossi presentato io alla galleria, non mi avrebbe dato retta nessuno, non avrei venduto nulla. Invece grazie a te, adesso so di avere talento». Questa scena tremenda/patetica mi ha fatto pensare a due cose. Prima cosa, assai elementare, che nell’arte, proprio come per la vendita porta a porta degli aspirapolvere, è molto vero che il talento arriva prima se ti presenti meglio. E poi, per estensione (dovuta alla lettura di Di Ruscio), che a molti pare quasi avventurosa questa storia dell’autore che viene riscoperto tardi, o addirittura post mortem, la vedono come qualcosa di avvincente nella sua biografia di maledetto e di incompreso che stava lì ad aspettare noi, proprio noi, che siamo invece arrivati dopo, per riscattarlo con il nostro amore postumo. Invece è orribile, spaventosa. Pensate all’enorme spreco di energie creative di una mente non sollecitata da un riscontro, quante opere ci siamo persi perché un artista pensava che non valesse più la pena provarci. Occorre un coraggio straordinario per continuare a crederci, per vivere tutta la propria vita col dubbio di avere o no talento, senza una parola di conforto, soli come cani, con la gente intorno che fa finta di non vederti, ti evita se non gli servi, ti evita anche solo per non dirti che ne pensa del tuo lavoro (e questo lo so, perché io per primo a volte non ce la faccio a dare una risposta a tutti). Non è vero che il tempo è galantuomo, succede solo per alcuni fortunati. Ma per ciascuno di loro che ora si prende il nostro amore, ce n’è un altro da qualche parte, nostro contemporaneo, che vive e respira insieme a noi, al quale stiamo negando la nostra attenzione, volutamente o distrattamente che sia, in attesa che se il suo carico lo pigli qualcun altro.

giovedì 25 marzo 2021

speranza

Mio padre che vede al Tg la notizia del settecentenario di Dante, mi guarda e dice: Allora c'è speranza! Io non credo che finché campo ti vedrò diventare famoso, ma che ne sai, magari fra 700 anni potresti esserci tu al posto suo... Chi vivrà vedrà, papà.

mascherine


Continuo imperterrito a usare la mscherina di stoffa che mi lavo ogni sera e poi riutilizzo il giorno dopo. Alcuni amici mi dicono che importanti studi medici ne contestano l'uso, la maschera in stoffa non serve niente, non è sicura, né per me né per gli altri. Serve almeno quella medica. E alcuni altri, più isterici, mi guardano addirittura come se fossi un untore. Poi, periodicamente, vengono diffusi dai siti ambientalisti video con animali sommersi dalle nostre mascherini monouso, il mare pieno di tutte queste mascherine trasformatesi in monnezza comune, e mi chiedo: se per salvarmi la salute devo contribuire all'inquinamento del pianeta, che altri studi confermano essere fra le cause della diffusione del virus, non è un po' come parlare del serpente che si mangia la coda? Dov'è il vantaggio? Dov'è la via di uscita?


mercoledì 24 marzo 2021

alcuni pensieri su parole a matita

Lancio qui alcuni pensieri che mi ha scatenato la lettura di un libro che per certi versi si può considerate un divertissement, ma assai piacevole e ben fatto, com’è appunto Parole a Matita, di Massimo Klun per i testi e Maurizio Stagni per i disegni, edito nel 2020 da Samuele Editore.

Primo pensiero. James Joyce, che amava i versicoli, le canzonette, i doppi sensi anche scurrili, lo avrebbe di sicuro apprezzato. A lui sono, infatti, dedicate le ultime pagine del volume, in un dichiarato e doppio omaggio, 1) al grande autore che li ha ispirati con la sua carica più estrosa e giocosa, e 2) alla città di Trieste, dove i due autori vivono.


Secondo pensiero. Che libro è, questo? Pochi giorni fa, parlando con la redattrice di un blog di poesia fra i più seguiti, lei stessa si lamentava di quanto a volte sono conservatori, nei gusti, i Soloni della poesia. Non solo nella predilezione di un registro monocorde e spesso drammaticamente esistenstenziale, ma anche nella forma stessa del libro. Un libro di versi con le immagini (foto o disegni che siano) è già di per sé, nell’accezione comune,un libro a metà, dunque al ribasso: se l’immagine non è più solo di contorno, allora il libro puzza di contaminazione, di meticcio, di qualcosa che forse (atroce dubbio!) senza quell’immagine non funzionerebbe. Questo si pensa e allora si punisce il libro nella sua interezza, per punire il poeta che ha barattato la purezza della Parola per prestarsi all’espediente frivolo della illustrazione.

Terzo pensiero. Che succede in questo caso? Non solo il linguaggio visivo di Stagni, versatile e istrionico, è imprescindibile, ma buona parte del fascino del libro viene proprio dai suoi disegni e dal vivace dialogo coi testi. Di contro, la parte scritta nega schiettamente, pur essendo in versi, la propria dimensione di poesia, con Klun (che ha letto assai più di quel che dice e) che fa della propria sciatteria un vanto, a metà fra la più classica posa scapigliata e certo Bukowski alcolico (anche lui citato con affettuosa irriverenza).

Quarto pensiero. C’è chi, leggendo Klun, certamente gli dirà: Ma tu non sei poeta! A cominciare dalla scelta di un registro comico (HORRORE!), per poi accostarlo, per taluni risultati, ai vari Slam poetry, Instan poetry, ecc. che ormai fanno corsi di scrittura e vanno in TV. Klun, però, più furbo, si nega e risponde: Lo so che non sono poeta, l’ho già detto nella prima poesia, così come nella seconda o nella terza o nella decima, casomai ti fosse sfuggito prima. Ecco, confesso che a me questo spirito goliardico è piaciuto. Caro lettore, proprio come Cyrano, Klun se lo dice da solo e in quaranta modi diversi di non essere poeta, e se tu non sai dirlo meglio di così, il tuo sarà al confronto un pensiero moscio, e al fin della ripresa... 


Quinto pensiero. Ma allora quelle di Klun sono o non sono poesie? Qui si deve essere obiettivi. Lì dove la carica ironica e giocosa è dosata a dovere secondo me si ottengono anche dei risultati molto apprezzabili. Come in questo caso:

HAIKU

Unhaikufattodidiaciassettesillabeveroono?

Altre volte l’ironia si fa meno leggera e gli esiti non sono così felici. 

Sarebbe ingiusto, però, per tutto quanto detto sopra, separare testo da immagine, leggerli separatamente. Si farebbe un torto all’opera, che non a caso già nel titolo vive tutta in quella A di congiunzione, quasi fosse un ponte fra due rive. Parole a Matita. Non solo va letto tutto insieme il libro, in barba ai Soloni della poesia, ma il vero crimine sarebbe proprio separare le due sponde del fiume, fare differenze fra i linguaggi.

mercoledì 17 marzo 2021

il giudizio dei colleghi

Una autrice mi gira via mail la sua proposta editoriale, che ha precedentemente mandato ad altri editori. Non ci sarebbe nulla di strano in questo, se non fosse che, a ogni rifiuto, inoltra al prossimo editore la stessa mail, non cancellando i messaggi precedenti. Infatti, leggo, l'editore contattato prima di me le dice che non ha nemmeno aperto il file, perché i due editori contattati prima di lui lo hanno bocciato entrambi così categoricamente che non ha potuto non accodarsi al giudizio dei colleghi. Lei, imperterrita, lo ha inoltrato a me.


martedì 16 marzo 2021

puzza

Più mi addentro nel mondo del mercato editoriale e meno lo capisco. Quante complicazioni inutili che ci facciamo, spesso per depistare proprio dai libri, per farli passare per qualcos’altro, qualcosa di più o di meno di ciò che sono, e tutto in nome della sovranità indiscussa del lettore ad assecondare il proprio piacere; fino al punto che certe volte, esagerando, i linguaggi si confondano e più che di libri mi pare quasi che si parli di dildo. Molti lettori, poi, restano delusi perché segretamente cercavano il dildo, ma hanno trovato solo il libro che, a riprova delle apparenze, per dare un qualche piacere deve prima essere letto. Io stesso, corrotto dal sistema, confesso con grande imbarazzo che sulla quarta di copertina dei miei primi libri, facevo di tutto per infilarci la parola romanzo, anche se erano libri di poesia, così da avvicinare più lettori. Era un rimedio da ingenui e ovviamente non c’è mai cascato nessuno, perché il lettore, più dritto di me, quando apriva il libro vedeva tutti quelli a capo, e anche se non aveva mai letto una sola raccolta di poesie in vita sua, ne sentiva la puzza e subito richiudeva il libro.

affrancare il tempo

Stanotte ho sognato di incontrare quest’artista, James Randall, il quale è diventato molto famoso per un’opera chiamata AFFRANCARE IL TEMPO. L’opera è costituita da una scatola e da una serie di pietre muschiate della dimensione di un uovo. Ogni pietra ha inserito, sotto il muschio, una piccola carica esplosiva. L’opera consiste nella possibilità, per chi acquista la scatola, di far esplodere le pietre, sbattendole contro il piano del tavolo come fossero delle uova. Facendo scoppiare l’esplosivo si scatenano diverse reazioni: può non succedere nulla alle pietre, si possono incrinare o sbriciolare, ci si può ferire la mano macchiandola del proprio sangue. A quel punto, avvenuta l’esplosione, il collezionista può disfarsi delle pietre o riporle nella scatola per conservarle come cimeli di una azione passata, ovvero caratterizzata dal suo intervento. Nel 1993 l’opera è stata anche al centro di un fatto di cronaca, quando una donna irritata ruppe una pietra non sul tavolo, ma sulla nuca di suo marito, causandogli una brutta ferita.

giovedì 11 marzo 2021

like

Oggi una ragazza assai gentile mi ha detto che non vede l’ora che esca il mio prossimo libro. Mi ha fatto molto contento, ma anche per questo continuo a interrogarmi sul senso di fare libri, oggi. Spesso leggo autori che, in omaggio a Manzoni, ironizzano sui propri 25 lettori. Probabilmente non si rendono conto che stiamo già realizzando, invece, la profezia/condanna di Andy Warhol, il quale diceva: “in futuro, ciascuno avrà i suoi 15 minuti di celebrità”. Ecco, allo stesso modo, ma senza ironia, si può dire che in futuro ciascuno scrittore avrà i suoi 25 lettori, ma non più di quelli, 25 in tutto. Quanti soldi, quanta fatica, quanto malesangue costa fare un libro, molti non lo immaginano neppure, e tutto questo lavoro spesso lo si fa perché quel libro lo leggeranno 25 persone. Quando ci penso, in parte mi risolleva quanto disse Brian Eno del primo disco dei Velvet Underground, che lo comprarono in 100 ma quei cento poi diventarono tutti musicisti, ne furono stregati; in parte continuo a chiedermi che senso ha. Me lo chiedo soprattutto quando faccio un post buffo su FB per cui prendo magari 50, 70, 100 like e quei like sono la dimostrazione evidente che mi hanno letto e apprezzato il doppio o il triplo delle persone che normalmente comprerebbero un mio libro.

martedì 9 marzo 2021

oppure no

 Parlando di bellezza, quella vera, mi contatta una donna bellissima che scrive anche poesie. E mi dice: «Ho già deciso che tu sarai il mio editore». Io, soggiogato dalla sua bellezza, ma cercando di darmi un minimo di contegno editoriale, le rispondo: «Certo, vediamo». Intendendo: fammi giusto vedere che ci sono due frasi scarabocchiate sul quaderno, ma poi ti dico sì lo stesso. Lei mi risponde: «A me non si dice vediamo. Si dice sì». «Oppure no» le dico io, scherzando. Non mi scrive più.

sabato 6 marzo 2021

l'influencer

Se c'era un figura professionale di cui il mondo dei libri aveva proprio bisogno è quella degli Instant Influencer senza nessuna influenza. Come quello che mi scrive oggi per chiedermi se gli posso spedire a mie spese quattro libri che lo interessano, di cui poi pubblicherà la foto col suo gatto sul suo profilo privato. Non solo uno dei titoli che mi indica non è mio, ma lo ha pubblicato un altro editore, ma il suo profilo conta soltanto 200 follower. Glielo dico: Guarda che se è per fare la foto al libro col gatto, anche io ce l'ho un gatto. Sì, mi risponde, ma al mio gli ho insegnato a stare fermo quando lo fotografo. Touché.

giovedì 4 marzo 2021

contrappasso


Visto che siamo nell’anno dantesco, cercavo poco fa su Google alcuni versi di Claudia Ruggeri, poetessa leccese morta nel 1996, forse l’ultima autrice italiana ad avere attinto con più forza alla lezione dantesca, tanto che tutto il suo Inferno minore (Musicaos, 2018) non è in fondo che una rilettura postmoderna di Dante. Cliccando sulla barra di ricerca però mi è comparsa l’altra Claudia Ruggeri, la più famosa e formosa modella che di recente, mi dicevano i titoli, ha spopolato sul web con le sue foto senza reggiseno. Del resto è la legge del contrappasso, e se per ogni Giuseppe Conte poeta c’è pronto un Presidente del consiglio, per una poetessa come la Ruggeri doveva esserci da qualche parte una femme fatale che dava scandalo. Eppure mi sono rattristato a pensare a tutti coloro i quali cercando tette e culi (che pure fanno bene alla salute, chi lo nega) si ritroveranno per questa strana omonimia sul sito della giovane poetessa in bianco e nero e, senza alcun contrappasso nella loro vita, non ne verranno illuminati e nemmeno incuriositi, semplicemente cambieranno canale per nulla toccati da tanta grazia, perché per cogliere certi fiori serve qualcosa in più che allungare le mani.

(e quindi e quasi quasi mi misi
in viaggio e col baleno che salva
l'odore mi chiusi nella pelle

del traghettatore: e volli
il ‘folle volo’ cieca sicura tuta
volli la fine dell'era delle streghe volli

il chiarore di chi ha gettato gli arnesi
di memoria di chi sfilò il suo manto
poggiò per sempre il libro

ed ha disimparato il trucco
per fare il suono mago nel giardino
dell'idem che è perduto…

mercoledì 3 marzo 2021

il solito pezzo pieno di domande senza risposta

L’editoriale pubblicato oggi su Poesia del nostro tempo mi ha scatenato, come sempre riescono a fare, una serie di pensieri assai poco rasserenati. La redazione ha contattato una settantina di librerie per inserirle in una mappatura delle librerie che vendono poesia in Italia e nessuna ha risposto all’appello. Cosa significa? Che le librerie italiane – si parla sempre per grandi numeri qui, e non per singoli casi – non sono interessate alla pubblicità derivata dalla poesia, sia pure promossa da un sito che ha una certa visibilità, perché non la vendono o ne vendono talmente poca di poesia, ai loro lettori abituali (persone in carne ed ossa che comprano libri) che non hanno interesse a promuovere e promuoversi, perché anche promuoversi richiede tempo, e il tempo è denaro. Aggiungo una cosa a riprova di questo dato: di recente mi è arrivato, dal mio distributore, il bollettino coi libri più richiesti (che serve a orientarsi sui generi che vanno per la maggiore): nel bollettino non c’è un solo titolo di poesia. Poi vedi le classifiche e ti accorgi che il pubblico compra sì dei libri di poesia, ma sono appunto, nella maggior parte dei casi, autori “di cassetta”, che non piacciono o non convincono quasi mai gli addetti ai lavori (e non sempre per invidia). A me pare ci sia un grosso scollamento, nel settore, fra autori, editori e librai, su cosa vogliono, su cosa è realmente e dovrebbe essere la poesia oggi, e su chi sia il pubblico della poesia. E soprattutto sulle spalle di chi dovrebbero ricadere, senza falsi moralismi, il peso di questa crisi. Mi chiedo: perché gli autori, pur ammettendo candidamente che i libri di poesia non si vendono (né spesso loro per primi li comprano) poi invocano di continuo che la poesia rientri e si giustifichi in un sistema di mercato, dichiarando che un intero comparto editoriale debba sostenersi sulla vendita ai lettori, che non ci sono, e incolpando gli editori della loro incapacità di attrarli? Perché io editore mi ostino a pubblicare autori che ritengo all’altezza di un certo discorso culturale, spesso per semplice “posa” (se intanto ho le pezze al culo) quando poi lo stesso sistema culturale con cui mi confronto mi ignora bellamente, facendo leva proprio su meccanismi del mercato: “quanto vendi? di chi sei figlio/amico? chi ti hai recensito? E cosa mi puoi dare in cambio di una recensione?”. E perché i librai, in nome dei più alti valori della cultura, invocano dallo Stato maggiori attenzioni e garanzie rispetto alle prepotenze del mercato (vedi la questione della scontistica bloccata) quando poi applicano rispetto a libri, generi e case editrici, l’identico sistema mentale di utilità del mercato? In un sistema di mercato, visto che parliamo di cultura ma la cultura è anche egemonia, la cultura la fanno gli autori meglio diffusi e pubblicizzati, quelli che arrivano a un pubblico più vasto, il quale solo al raggiungimento di una certa fama dell’autore darà ascolto e credito a quella voce: i discussi casi della Merini o di Arminio, che i colleghi poeti guardano storcendo il naso, fanno oggettivamente più cultura di un bravo poeta recensito su un blog. Se la poesia di Arminio non piace ma scatena discussioni, anche in negativo, da parte di chi lo denigra, per definire il luogo dove dovrebbe invece essere la cultura, già in quello Arminio sta scatenando un discorso culturale che è doveroso affrontare, ma lo fa in virtù della sua visibilità raggiunta. Con me non capiterebbe mai, perché il mio limite culturale è nella mia insignificanza sul mercato. E dunque, in assenza di un mercato e di una cultura che mi consideri necessario (e degno) al suo discorso, in nome di chi o che cosa dovrei vivere/campare? Del mio ideale? Della mia dignità? Dei miei libri presi per se stessi, come puri oggetti estetici (e non a caso mi definisco, preferibilmente, un artigiano)? Per la poesia, è risaputo, ogni regola è sovvertita, e nella maggior parte dei casi il fruitore ultimo del libro non è più il lettore, ma l’autore stesso (che pure lo nega per orgoglio). Già da molto tempo, mi chiedo, ma me lo chiederò sempre: ma io per chi realizzo i miei libri? Per il pubblico dei lettori, talmente ridotto che le librerie ritengono sia una perdita di tempo pubblicizzarli? Per i siti di settore che li recensiscono e sono oramai, nella loro gratuità amatoriale, l’unica piazza di circolazione-discussione di un libro, specie se l’autore è ancora in vita (altro discrimine: morto un poeta ‘non’ se ne fa un altro, perché da morto il poeta vale doppio sul mercato)? O per gli autori stessi che, più o meno indirizzati dagli editori, comprano un tot di copie e le regalano ad amici e colleghi in un discorso che sempre più si fa autoreferenziale e solipsistico, per iniziati (ci manca solo un segno di riconoscimento come i massoni e siamo a posto)? Ma davvero è questa la “cultura” a cui ambivo partecipare? Non lo so, a parole non ci credo, ma a fatti è tutto ciò che abbiamo e a cui pare siamo destinati.

lunedì 1 marzo 2021

metafora

Di recente, visti i tempi che corrono, una delle letture che mi mette più allegria è quella riguardante la rubrica inaugurata da Valentina Nappi nelle sue storie IG, dove il pubblico può farle domande e lei risponde a quelle che preferisce. Le domande sono di vario genere, molte sono spinte ma non tutte volgari, e la Nappi risponde spesso con ironia e garbo, tanto che sono convinto che presto ce la ritroveremo a condurre un programma in TV. Ma se c'è una cosa che ho notato è che l'argomento di maggior richiamo, quello che più interessa e incuriosisce il suo pubblico, riguarda il sesso anale. Ecco, io lo so che oltre ai più sani pruriti (Tinto Brass docet) c'è qualcosa di fortemente metaforico legato a tutto questo, ma se me lo immaginavo prima che gli italiani erano a tal punto curiosi sull'argomento, mi attrezzavo per farci una collana ad hoc. Ci ho anche pronto il titolo: Cul-de-sac. Oppure, forzando espressivamente verso Patti Smith, che puzza di Manzoni: La Mer(de).

il maratoneta

Ieri, come un piccolo maratoneta, ho passato la giornata guardandomi di fila Il mistero del falco, Il grande sonno, L'infernale Quinlan, Il terzo uomo e Il lungo addio. Alla fine, oltre ad avere un cerchio alla testa e una gran voglia di fumare, vedevo il mondo in BN e vi immaginavo già tutti assassinati da uno sparo nel buio, oppure avvelenati in una trappola per topi. Sempre meglio che morire di noia, ha detto il cinico detective che nel frattempo si era incistato in me, prima di finire al tappeto.