sabato 31 agosto 2024

gio evan

Giovane autrice carismatica si propone per lavorare con me e aggiunge che spera di poter imparare tanto da questo incontro. – Le chiedo qualcosa dei suoi gusti letterari. — Io stravedo per Gio Evan, mi dice, voglio diventare brava come lui! – Mi spiace, ma se vuoi arrivare lì, temo di non poterti insegnare proprio nulla io. – E lo so, mi risponde fraintendendomi, Gio Evan è un grande. Ma io penso che bisogna essere sempre positivi, se uno vuole ce la può fare!

venerdì 30 agosto 2024

da anni immemorabili

Era il 1935. Scrive Giorgio Caproni: «Io non avevo ancora pubblicato niente in volumetto – ricevetti un libretto, mi pare accompagnato da una cartolina postale. Il libretto era intitolato La barca, l’autore era Mario Luzi, e diceva: “Sono un giovane studente di filosofia, le mando questo libretto in omaggio” eccetera, eccetera, senza chiedermi un giudizio». Fu così che il primo in assoluto a segnalare il ventunenne Luzi che esordiva in poesia, fu il ventitreenne Caproni, non ancora pubblicato in versi, ma già recensore letterario per ‘Il popolo di Sicilia’. Ricorda Luzi: «Sono legato a questo mite ma severo e indefettibile ‘faber’ da anni immemorabili, fin da quando a Castello dove ancora abitavo mi arrivò un giornale siciliano che conteneva una nota su La barca, il mio primo libro: e me lo mandava da Genova l’autore che si firmava appunto Giorgio Caproni. Era il primo segno di attenzione che mai avessi ricevuto da fuori e anzi da lontano per via pubblica». Continua Caproni con la sua prima impressione della raccolta: «Insomma, mi fece un po’ l’impressione degli Ossi di Montale, ma mentre gli Ossi erano volti a quella tipica disperazione radicale propria di tutti i genovesi, questo Luzi invece era volto sul rovescio, alla speranza, no?» annotando come l’autore fosse, non necessariamente in negativo, «un convinto e perfetto cattolico», ma anche «un vero poeta». Ne fu a tal punto convinto che continuò poi a recensirne puntualmente le uscite fino al 1963 (Nel magma), e a farlo soltanto «per amore», quando cioè solo «per amore» si poteva ormai scrivere una di quelle «piuttosto degradanti cose chiamate recensioni».

Questa ed altre interessantissime storie sugli incontri, le vicende e le intuizioni di Giorgio Caproni critico letterario e giornalista si possono trovare nel volume “Nella scatola nera” di Fabrizio Miliucci (Mimesis, 2019). Ogni tanto lo riprendo in mano e me lo godo, forse anche più del suo stesso autore.

giovedì 29 agosto 2024

la diga

Capolavoro minore di Rossellini, la puntata 8 del documentario (in 10 tappe) L’India vista da Roberto Rossellini andato in onda sulla Rai nel 1959, è una gemma di circa 23 minuti, dedicata alla costruzione della diga di Hirakound, dove un Rossellini particolarmente ispirato riesce a descrivere con grandissima mobilità e leggerezza di camera, partecipazione umana ed equilibrio estetico, il faticosissimo lavoro delle grandi masse di uomini e donne impiegate nella costruzione dell’enorme diga: 35.000 operai che spesso lavorano a mani e piedi nudi e a temperature proibitive. Il tutto viene descritto con grande rispetto per la dignità di ogni singolo operaio, visto però nella sua identità di popolo motivato alla modernizzazione del paese. A tal punto rimase affascinato da questa esperienza, che la recuperò in uno dei quattro episodi del film cinematografico India - Matri Bhumi (1959), inscenato dopo la costruzione della diga, attraverso la vicenda un operaio che vive con malinconia la fine dei lavori, diviso fra l’orgoglio di cosa lui e i suoi compagni hanno edificato dal nulla, e la tristezza di dover lasciare il villaggio accanto al cantiere dove ha vissuto con la sua famiglia negli ultimi anni per trasferirsi in un altro cantiere e ricominciare tutto da capo.





martedì 27 agosto 2024

testimonianza

Esce oggi per Ponte alle Grazie Accorgersi di essere vivi di Franco Arminio. Io da quando ne ho letto il titolo/slogan non riesco a smettere di metterlo a confronto, come possibile risposta, a Far finta di essere sani di Giorgio Gaber. I due estremi di ciò che siamo: da una parte la ricerca spasmodica di quei rari momenti emozionali in cui ci accorgiamo di essere vivi mentre facciamo finta di essere sani; e dall'altra, siccome in noi prevale la malattia, l'abitudine, invece di gustarceli fino in fondo, di fotografarli e postarli come rappresentazione ad uso degli altri del fatto che viviamo. La nostra vita appena vissuta ridotta a testimonianza postuma.

il guardone

Nell'epilogo di Berlin Alexanderplatz (1980) di Rainer Werner Fassbinder, Franz Biberkopf, impazzito dopo la morte della sua amata Mieze, viene ricoverato in un ospedale psichiatrico dove fa un lungo sogno (con una colonna sonora strepitosa) in cui scopre di avere due angeli custodi filosofeggianti con tanto di armatura dorata, che a me personalmente fanno pensare a quelli che 7 anni dopo (e 5 dopo la morte di Fassbinder), riempiranno, in bianco e nero, Il cielo sopra Berlino di Wim Wenders. Ovviamente quelli di Fassbinder sono un pizzico più kitsch e disincantati, e in una scena osservano serenamente il loro protetto mentre viene torturato in un macello, accanto allo stesso Fassbinder nelle vesti di un inquietante guardone.

lunedì 26 agosto 2024

barbero contro i neoborbonici

Io non lo so di preciso chi li pubblica, ma ogni tanto su YouTube, fra i vari video di papa Barbero – come a volte lo chiamo perché, pur essendo bravissimo, per alcuni ha assunto ridicolmente il sommo status sacerdotale e tutto ciò che dice è verità sacrosanta – me ne ritrovo alcuni in cui Barbero “sbugiarda” o “punisce” o “svela la falsità” – questa la terminologia usata – dei neoborbonici, con commenti del pubblico, anche abbastanza plateali, che vanno dai soliti adoranti che magnificano il nostro fino all’insalivazione delle terga; a quelli che danno addosso alle schiere di ignoranti sottosviluppati che infestano l’Italia del Sud col loro revisionismo da quattro soldi e che, attenzione, non potendo essere altro che meridionali, perché i neoborbonici – a differenza dei fascisti che sono trasversali ed esportabili, vera unità di misura del paese – sono in fondo dei meridionali “sottosviluppati”, elevano al quadrato una vecchia forma di razzismo novecentesco, per cui: io non odio i meridionali, ma odio i meridionali che contraddicono Barbero, e visto che io sono d’accordo con Barbero, odio i meridionali che mi contraddicono nella mia visione della ‘loro’ storia. Questo leggo io fra le righe dei loro commenti, dimenticando che se la storia non è ancora chiara a tutti a più di 150 anni dall’Unità, se non convince così tante persone – e non serve essere neoborbonico per dirsi che le cose non sono andate così come ce l’hanno raccontata sui libri di scuola che nessuno, mi pare, ha aggiornato, nemmeno a un secolo dalla caduta della monarchia – un qualche errore di fondo ci sarà. Perlomeno nel modo in cui ce la raccontiamo. E non lo dico io, e non serve che lo dica nemmeno Barbero che da storico non fa che ripeterlo come premessa a ogni sua lezione; ma lo dicevano già Gramsci, Salvemini, Silone, fra i padri della nazione, e con un punto di vista molto più spostato dalla parte del revisionismo e del “Risorgimento tutto da rifare” che non della più rassicurante visione di Barbero. E con tutto ciò, confesso, mi piacerebbe anche vedere, ogni tanto, un video in cui Barbero “sbugiarda e punisce” i Leghisti, facendo una buona ricostruzione storica che mostri l’inconsistenza delle tante fesserie che dicono. Eppure, per quanto lo cerchi, non ne trovo.

domenica 25 agosto 2024

la sagra dell'ipocrisia

Qualche giorno fa un mio concittadino, un uomo della mia età che conosco dalle medie, ma con evidenti problemi con l’alcol, del tutto ubriaco ha avuto uno scontro con un carabiniere, lo ha colpito con un pugno, quindi è stato fermato con la forza in un’azione che è stata ripresa e, non so per quale motivo specifico, oggi è finita sui Tg principali e peggio ancora è stata commentata dai nostri rappresentanti politici, gente assai discutibile sul piano morale che ai suoi tempi e fino all’altro ieri faceva del “picchiare” una fede. Certo una cosa è picchiare e far picchiare dall’alto del proprio potere, e un’altra è picchiare per pura rabbia o disperazione, che spesso sono la rabbia e la disperazione degli ultimi. Nei giorni passati ho veramente soffocato un moto di fastidio sulla vicenda, leggendo commenti che vanno dai più accorati o lacrimevoli “avremmo dovuto aiutarlo prima” ma detto sempre il giorno dopo, a cose fatte, e a volte pronunciati da gente che manco lo salutava per strada quell’uomo, per evitarsi le sue intemperanze, a quelli senza assoluzione di chi tuona “gente così va messa in galera a vita”, con tutto che sono mesi che dicono che le nostre carceri stanno messe così male che fai meglio a impiccarli tu direttamente i detenuti, prima che si impicchino da soli. Ma persone con quel problema, e ce ne sono tante, molte più di quelle che si vuole ammettere, se vuoi aiutarle davvero, dovresti inserirle in qualche comunità dove possono, se vogliono, togliersi il vizio, non metterle alla gogna nazionale sul Tg. Servono politiche di accoglienza, non di eliminazione degli “inutili”. Anche perché, come diceva Paolo Villaggio in quel famoso video con Borghezio, a noi manca la "personalità" dei veri assassini, non abbiamo le capacità per fare un lavoro come si deve. Noi, si sa, siamo un paese a cui i fatti piace chiacchierarli più ancora che farli. E infatti, in questa sagra dell’ipocrisia nazionale, oggi leggevo, fra i commenti ai post dei suddetti politici, gente che non sa nulla di questa storia, ma scrive: “bisognerebbe permettere ai poliziotti di sparare a gente così”. Ecco cosa ci mancava per essere felici, i poliziotti che sparano agli ubriachi molesti, così facciamo come negli Stati Uniti dove si vede a cosa portano queste politiche. Anche a me, certi giorni, manca l’aria per respirare.

sabato 24 agosto 2024

speranza

Un poeta colombiano, quando gli chiesi perché i colombiani amano la poesia, mi rispose: “Perché la confondono con la speranza”.

Carlo Bordini

venerdì 23 agosto 2024

porcata

Il momento più alto che possa capitare a un editore, quando viene a trovarti un autore di cui sei amico ma non vuoi pubblicare, che trovando fra le carte del tuo studio una vecchia poesia scritta per te su un tovagliolo, la legge quasi disgustato e chiede: Chi l'ha scritta sta porcata? E tu scoppi a ridere e rispondi: L'hai scritta tu! Ora hai capito perché non ti pubblico?

domenica 18 agosto 2024

storie di volpi

Stamattina mia zia ci raccontava di come una nostra cugina sia stata morsa da una volpe. Pare che la volpe, ischeletrita dalla fame e dalla sete, abbia abbandonato ogni timore e sia entrata in pieno giorno dalla porta, tenuta aperta per il caldo africano, si sia avvicinata a mia zia appisolata su una poltrona e le abbia morsicato il piede cercando di mangiarlo. La cugina si è svegliata gridando per la paura e la volpe, ancora a pancia vuota, è scappata. La cugina, nonostante sia stata portata al pronto soccorso e appare sanissima, da giorni racconta questa storia tragica ed emozionante, ripetendo più volte che potrebbe lasciarci da un momento all’altro perché si dice convinta di aver preso una qualche malattia dalla volpe. La quale, mi raccontava mia zia, è stata trovata poco dopo, morta non si sa bene di cosa, anche se io un sospetto ce l’ho… Questa storia, infatti, me ne ha ricordato un’altra che mi raccontò mio zio, su di un’altra volpe che aveva preso l’abitudine di dormire fra i coni di un trullo costruito vicino a una zona boschiva dove aveva la tana. Lei li pensava un po’ suoi. Invece il proprietario del trullo, non gradendo quella presenza sopra la casa, ha preso il fucile da caccia e le ha sparato, e visto che la volpe, crollata giù dal tetto, si rifiutava ancora di morire e si trascinava con un buco nero in pancia verso il bosco, hanno dovuto finirla con la forca.

venerdì 16 agosto 2024

le storie di ieri

Ieri, al concerto di Nada, il momento più commovente me lo hanno offerto tre donne che mi stavano alle spalle chiacchierando del più e del meno e dopo mezz’ora che Nada aveva cantato tutta una serie di canzoni che quasi nessuno conosceva, invocavano a gran voce “Vogliamo Amore disperato!”. Quando Nada ha deciso di accontentarle e ha fatto una dietro l’altra “Ma che freddo fa” e “Amore disperato” la temperatura piazza si è alzata così come tutti i telefoni per farle un video, e anche le tre donne, finalmente attente, mi sono sgusciate davanti sollevando il loro smartphone con gli altri, ballando e cantando le parole che finalmente sapevano. Dietro si portavano i figli, e quando uno di loro ha cominciato a tirare la gonna della madre perché voleva dell’acqua, la mamma si è girata e gli ha detto: “Non rompere il cazzo che sto facendo la storia!”. Dopo “Amore disperato” Nada si è messa a cantare un’altra di quelle canzoni che non conoscevano. Una delle mamme ha detto “Ce n’è una terza bella che ha fatto”, ma Nada non le ha tenute contente. “Andiamoci a fare un panino” ha proposto. Così se ne sono andate e finalmente c’è stato un po’ di silenzio. A quel punto Nada, quasi per dispetto, ha cantato “Ti stringerò” (la sua terza canzone famosa), e una di loro è tornata di corsa per fare una storia per tutte. In una mano stringeva il telefono e nell’altra il panino.

giovedì 15 agosto 2024

il “nemico”

 Si può essere, da antifascista, amico di un fascista? Me lo chiedeva un amico un po’ di tempo fa? – Se il fascista è intelligente sì, rispondevo. – E lui incalzava: Ma ci sono fascisti intelligenti? Io non credo. – Mi è tornato in mente stamattina, mentre leggevo dell’incredibile amicizia fra Piero Gobetti e Curzio Malaparte, che ha un doppio livello di lettura. Sul piano pubblico era pungente, severa e sarcastica, specie da parte di Gobetti, oppure assai prudente, specie da parte di Malaparte; su un piano privato era un’amicizia più intima, onesta ed affettuosa. Nelle loro lettere, lettere di due ventenni che guardano il mondo da punti di vista opposti, riescono a parlarsi in nome del talento che entrambi riconosco all’altro. Malaparte, acutamente, dice che quello che li separa è l’esperienza della guerra, che lui ha fatto, segnandolo nel profondo, e il poco più giovane Gobetti no, lasciando puro il suo idealismo. Gobetti predice a Malaparte che, con la sua intelligenza e col suo carattere così bizzarro, non gli ci vorrà molto prima di litigare coi fascisti, ma questo non potrà che fare bene alla sua scrittura, liberandola dalla brutta retorica del regime. Malaparte si preoccupa per lui, lo mette in guardia, implora di lasciar perdere l’editoria politica e dedicarsi esclusivamente all’arte e alla letteratura, prima che i fascisti lo facciano fuori. Gobetti invece sceglie di emigrare a Parigi per continuare da lì la sua lotta e viene ucciso nel 1926. Malaparte non commenta in alcun modo la sua morte e scriverà solo anni dopo, a guerra finita, quasi come un tributo postumo per quanto tardo, che “senza dubbio Piero Gobetti è l’uomo che, in senso antifascista, ha avuto maggiore influenza sulle giovani generazioni”, facendo di lui “il capo riconosciuto dell’intellettualismo antifascista”, più ancora di Gramsci, insomma. Nel 1925, a testimonianza della sua grandezza l’editore Gobetti pubblica due libri diversissimi fra loro. Uno di un giovane e riottoso poeta genovese alla sua prima pubblicazione, uno dei pochi intellettuali italiani che non aderì al fascismo, gli “Ossi di seppia” di Eugenio Montale; e l’altro di Curzio Malaparte, prima ancora che prendesse quel soprannome, una raccolta di saggi e articoli sul fascismo, chiamato “Italia barbara”. Gobetti lo presenta con una nota in copertina scritta di suo pugno, e degna di quella che vent’anni dopo Vittorini avrebbe riservato a Fenoglio per “La malora”. Scrive Gobetti: “Presento al mio pubblico il libro di un nemico. Coi nemici si vuole essere generosi: qui poi Curzio Suckert ci aiuta a combatterlo. Mi piace essere settario-intransigente, non settario-filisteo. Ho giurato di non rinunciare mai a capire né ad essere curioso. Curzio Suckert dunque è la più forte penna del fascismo: io non gli farò l’oltraggio di confutarlo. Completare immagini, opporre politica a variopinta fantasia e a stile pittoresco non è di mio gusto. Il mio antifascismo non combatte mulini a vento. Gli spiriti bizzarri amo lasciar sbizzarrire e anche della loro faziosa toscana letteratura, quando è letteratura, applaudirli. Sono oppositore; né melanconico, né pedante”. L’anno dopo Gobetti verrà ucciso. Nel 1928, Malaparte gli dedica un libro che Gobetti aveva letto in anteprima e che avrebbe voluto pubblicare, una raccolta di scritti satirici intitolata “Don Camaleo” dove si descrivono le malefatte di un fascista che, proprio come un camaleonte, riesce a cavarsela sempre in virtù della sua innata capacità di trasformismo. Da un verso è una presa per il culo di Mussolini, e a suo modo di Malaparte stesso, dall’altro è un sentito ‘mea culpa’ indirizzato alla coraggiosa intransigenza del “nemico” Gobetti.

mercoledì 14 agosto 2024

trovata

Oggi dopo un funerale, quando la cassa è uscita dalla chiesa e la banda ha cominciato a suonare, un turista, credo milanese, in piedi accanto a me, ha esclamato verso la famiglia: "PORCA PUTTANA! Allora è vero che fanno i funerali con la banda, non è tutta una trovata dei film!" poi una quarantina di persone hanno cominciato a fare il video e qualcuno ha fatto anche l'applauso.

lunedì 12 agosto 2024

biberkopf/pinocchio

Più approfondisco Berlin Alexanderplatz di Rainer Werner Fassbinder, serie televisiva in 14 puntate, coprodotta con la Rai e trasmessa dalla televisione tedesca nel 1980, e più mi suggestiona l’idea che ci sia come un parallelo – se non un qualche debito – con “Le avventure di Pinocchio” di Comencini, altra serie tv, realizzata in Italia nel 1972, e trasmessa per la prima volta in Germania nel 1973 e poi di nuovo nel 1978 in un riadattamento che la condensava in un solo film, e in cui, in una sorta di rovesciamento speculare (al negativo), la figura di Biberkopf è da leggersi come una sorta di Pinocchio, un essere pre-morale, venuto di nuovo al mondo dopo l’uscita di galera e che cerca di recuperare, nella sua ostinata volontà di tirare dritto, la propria umanità perduta. “Quest’uomo ha mancato di diventare adulto” dice uno dei due angeli custodi durante il sogno dell’ultima puntata. E proprio come il burattino di legno muore per diventare bambino, così Biberkopf deve a sua volta morire – nel passaggio che va dalla galera al manicomio – prima di tornare al mondo con lo stesso nome ma diverso come uomo. Nel mezzo, le tentazioni della strada per diventare adulto sono continue e non sempre il nostro riesce a resistere al fascino del male, ma quando sgarra viene punito dalla sorte, o proprio come Pinocchio dal gatto e dalla volpe, viene tradito dai suoi complici. Proprio come a Pinocchio bruciano le gambe, lui quasi con una sorta di indifferenza per la cosa, perde il braccio (che poi gli ricresce nel sogno racchiuso nell’epilogo). Proprio come Pinocchio Biberkopf pare incapace di comprendere e di prendersi la responsabilità delle sue azioni; e proprio come Pinocchio ha intorno una lunga serie di fate turchine che di volta in volta “muoiono” per causa sua, e tornano in vita per ammonirlo, e soprattutto le figure preponderanti di Reinhold/Lucignolo, e di Meck/Grillo parlante e a volte padre. Proprio come Pinocchio, Biberkopf finirà per perdersi due volte in una sorta di viaggio nel ventre della Balena – la prima volta soccorso dall’ebreo Baumann che lo ribattezza Giobbe e pare ripreso dal capitano Achab nel Moby Dick di John Huston! – e la seconda alla scomparsa dell’amata Mieze, rifiutando l’aiuto di chiunque, sia di Meck che di Eva, perché non ha la forza di accettare la verità del male che lo circonda, così entrando nel suo stato di follia come rifugio.

sabato 10 agosto 2024

e questo mio amore non finirà mai

Ho letto adesso che ieri è venuta a mancare Giuliana Orefice, moglie e musa di quel genio di Enzo Jannacci. Io la ringrazio per le tante belle canzoni che gli ha ispirato, in particolare questa che mi porto sempre nel cuore. 

macchia

Enrico Ghezzi, puntata di Fuori Orario del 1 gennaio 2006, per il centenario della nascita di Rossellini, dice cose, nel suo linguaggio unico ed oracolare, che oggi moltiplico per due, per Rossellini e per Ghezzi stesso: "Ecco Rossellini ci accompagnerà, ci accompagnerà?, ci ha già accompagnato, ci precederà, ci seguirà, sarà forse con noi... perché non si può vivere senza Rossellini, non si può morire senza Rossellini, non si può restare fermi senza Rossellini... Intendiamoci, Rossellini non è divino, Rossellini è veramente un Rorschach, è una macchia, una forma che lasciamo né a voi né a noi, che lasciamo alla forma stessa di provare a dirsi."

la storia si ripete

Su “La Storia” di De Gregori concessa all'Enel per uno spot leggevo prima il commento di un lettore che si chiedeva, con tono quasi di rimprovero: Chissà che avrebbe fatto De André al posto suo. A me verrebbe da chiedere Chissà che avresti fatto tu, caro lettore, se l'avresti venduto o no un tuo lavoro artistico per soldi. E questo lo dico da sociologo dell’arte, una cosa che ogni tanto tiro fuori dal cassetto della laurea mai utilizzata, e che sostanzialmente è la materia che indaga i rapporti anche economici che legano artista, pubblico e committente, perché da che mondo è mondo chi fa arte la fa in primo luogo come lavoro, per venderla. Chi non vende i propri lavori o è ricco di suo, come Cézanne, oppure è un artista per hobby. Persino chi scrive un libro di poesie cerca di venderlo. Figurarsi chi scrive una canzone di successo. Poi certo ci sarebbe da chiedersi, perché tali discussioni ritornano ogni volta ci si trova di fronte ad opere che travalicano il proprio tempo e spazio, a chi appartiene davvero “La storia” di De Gregori, se a lui per averla scritta o a noi come pubblico, ma a questo punto ci sarebbe anche da chiedersi – e spesso il pubblico non se lo chiede affatto, o finisce per mercificare la questione proprio come l'Enel, riducendo il tutto a un semplice: Ho pagato il biglietto – cosa abbiamo fatto noi per meritarcela.

venerdì 9 agosto 2024

così funziona

Universitari che puntualmente mi chiedono consigli per le loro tesi con la segreta speranza che le legga, o mi fanno mille vocali descrittivi, e poi puntualmente di quello che dico loro non prendono nulla perché in fondo non gli interessa un confronto o un'aggiustata da parte mia, ma solo una conferma che tutto è perfetto così com'è, e del resto è vero che io non solo il loro relatore. Così funziona il più delle volte a livello editoriale, quando mi chiedono un'opinione per il loro libro, ma solo per sentirsi dire che è tutto bello anche se poi il libro lo pubblicherà un altro. Perché mi dicono tutti che del mio occhio si fidano. Ma.

il nome antico

Stamattina a letto mi ha preso uno di quei dubbi senza risposta che poi mi ci sono arrovellato per ore, su quale fosse il nome antico di Locorotondo, che come sanno tutti viene da Locus Rotundus ed è un nome relativamente recente, medievale, e senza più tanto senso visto che di perfettamente rotondo, rispetto all'antico tracciato delle mura, c'è rimasto ben poco dopo il boom edilizio. Nei documenti più antichi, risalenti al 1100 non era nemmeno rotonda, ma era solo Casale San Giorgio, dalla chiesetta che sorgeva sull'altura al posto dell'attuale chiesa madre e che probabilmente era stata costruita sulle fondamenta di un antico tempio pagano. Ma la prima Locorotondo, quella del piccolo villaggio greco ritrovato in contrada Grofoleo, o del precedente villaggio dell'età del bronzo di cui pure hanno ritrovato tracce, chissà come si chiamava e come venivano chiamati i suoi abitanti e se erano nostri parenti in qualche modo, nella fisionomia del volti, oppure non c'entravano niente con noi, e che lingua parlavano, una qualche lingua antica che veniva parlata prima del nostro dialetto, ma a suo modo dialettale, e se a guardarci in faccia si sarebbero spaventati pure loro pensando a quanto siamo brutti.

giovedì 8 agosto 2024

quarto potere

In farmacia. – Antò, oggi ho letto Paese Vivrai, bell’artichele tiène! – Grazie, ma non lo faccio io quello. – Nan jè teggue? – None. – I ce cazze campe a ffè? – Dici che me lo devo prendere? – Sìne, jè na potenze, Paese Vivrai! – Ho già Agorà. – Tutte tu t'à pegghiè, Antò! N'à lassè nudde a nusciune! Quello che lasci è perduto! – Ma poi chi fa così finisce male! Ti odiano tutti, dopo. – Ce l’è ditte sta fatulaggene? Tu ffè accussì che diventi sindaco, sinte a mmè! Sintele a stu tremone!

il re sporco

Stamattina hanno imbrattato il busto di Vittorio Emanuele in villa. Devo dire che il volto sporco di rosso del re ha una sua efficacia simbolica nel ribadire come a fare l’unità d’Italia non è stato Garibaldi, ma il sangue di migliaia di meridionali che volevano soltanto un pezzo di terra da coltivare e in nome di un concetto astratto di “libertà” hanno subito un’invasione militare in piena regola da gente che li chiamava “affricani”. Non ci voleva la Nato per capire come vanno le cose nel mondo, bastavano i Savoia. Però, col senno di poi, aggiungo che dietro ogni atto di imbrattamento “rivoluzionario” c’è sempre un povero impiegato comunale che deve andare a pulire la vernice al posto tuo, respirando solvente sotto il sole di agosto. E va bene che fa parte del suo lavoro, ma punire lui in questo modo per fare un dispetto al mondo, non è bello e non è nemmeno tanto rivoluzionario. Mi sembra piuttosto un atto di bullismo.

martedì 6 agosto 2024

i nuovi mostri

Nell’ultimo anno ho conosciuto e regalato un mio libro a tre giovani aspiranti autori, a loro modo simpatici e alla mano, che mi venivano dietro perché sono un editore. Ho detto di no a tutti e tre: a una perché scrive poesie come se fossero testi di canzoni; a un’altra perché le sue sembravano dei pastiche molto studiati di poesie russe in traduzione; a un terzo perché mi pare ogni volta di leggere qualcosa a metà fra l’ultimo Zanzotto e Balestrini, qualcosa che non solo è già vecchio, ma è pure inutile. La prima ha fotografato il mio libro in tutte le maniere e posizioni possibili, dalla spiaggia al bagno di casa, o mentre strimpella la chitarra nelle sue improbabili storie, ma senza mai aprirlo una sola volta, nemmeno per curiosità di sapere che dico; il terzo, nato vintage, non ci prova nemmeno a fare storie e lo ha infilato in fondo alla libreria ringraziandomi, ma dicendo che prima ha molto altro da leggere e deve dunque finire tutti i classici del 900, io vengo dopo; la seconda, più intraprendente, reduce di millemila master in editoria senza sbocco, continua a chiedermi con insistenza se la voglio assumere, ma ogni volta che le chiedo impressioni del mio libro glissa per non dirmi apertamente che non le interesso come autore, ma solo come possibile padrone. Nessuno ha mostrato di avere il minimo interesse nemmeno all’idea di restituirmi pan per focaccia e fare a pezzi ciò che ho scritto con una sana stroncatura. Questo è per dire che anche a me tocca subire l’uguale destino di tanti, pubblicati e puniti dalla mancanza di risposta. Ma più semplicemente, ed è una forma di sfacciata onestà che riconosco a quei ragazzi e che mi manca, non gliene frega niente di chi gli sta attorno, o di quanto gli succede intorno se non sono loro il centro della scena, e questo da un po’ mi fa pensare, con la mia solita sfiducia, che c’è ben poco da fare per la poesia di domani, perché più vado e più credo che quei tre non rappresentino dei casi isolati ma la regola generale che cresce e si afferma. Che pubblica comunque, con o senza te. Ci sono, ovviamente, delle eccezioni. Ma l’editoria – non la letteratura – per sopravvivere deve appoggiarsi alla regola, non alle eccezioni. I soldi si fanno sulla regola, o trasformando l’eccezione in regola che vende, quindi sminuendo e “addestrando” l’eccezione per ridurla a una formula che piace, che è di per sé una cosa orrenda, ed è il mercato. A cui non so più oppormi. C’è stato sì un momento, poco prima del Covid, in cui ho avuto l’impressione che qualcosa stesse cambiando in meglio, che ci fosse una ripresa, un nuovo orgoglio, un’attenzione nuova, poi c’è stato quello e il processo si è interrotto o involuto, il mondo si è abbruttito e delle porte si sono chiuse irrimediabilmente, un velo di stanchezza ci ha avvolto tutti quanti con un calo di attenzione o di interesse anche verso noi stessi e verso l’idea stessa di poesia che ci portiamo dietro. È una sensazione che avverto a pelle e non sui dati, e potrei anche sbagliarmi, magari sono io che non mi trovo più a mio agio con gli altri, ma io la sento così quest’epoca, la vivo attraverso chi mi scrive, e me ne sento contagiato. Tutto ciò che tocco mi fa male.

lunedì 5 agosto 2024

bulletti in banca

Oggi, mentre ero in fila in banca, un gruppo di tre vecchietti che se mettevi insieme l'età di tutti superavano i 200 anni, hanno cominciato a fissarmi le gambe e bullizzarmi per il mio aspetto fisico: Ma non ti vergogni che non vai al mare? Sei bianco come un cadavere! Già di tuo non sei nemmeno bello, ma così bianco fai veramente schifo! – Ma non ci hai caldo con quella varvaccia? Ma perché ti devi conciare sempre così? Ma non lo vedi che stai facendo vecchio e sta facendo bianca pure quella? Ma una sistemata ogni tanto te la vuoi dare o no? L’uomo di mondo va in giro con la faccia rasata! – Ma poi si può sapere che stai a fare sempre qua dentro? Io sempre qua dentro ti vedo! Sempre a pensare ai soldi! Ma invece di pensare ai soldi che non tieni, perché non ti vai a divertire? Guarda che gli anni stanno passando pure per te! Io a primavera ho avuto un problema alla prostata e ti posso dire che prima si intosta e non si intosta, ma poi arriva un giorno che non si intosta più! E allora è finita bello mio, te ne puoi venire qui a dire le chiacchiere con noi! – Io mi toccavo per scaramanzia.

sabato 3 agosto 2024

agenzie

Agenzie letterarie che mi mandano proposte di pubblicazione che io rimanderei all'esame di terza media.

giovedì 1 agosto 2024

la lunga storia di canzone

The patriot game è una canzone scritta dal folksinger irlandese Dominic Beham. Basata sulla melodia del tradizionale della fine del XVII secolo, One morning in may – che nell’originale parla di un soldato che dice addio alla sua bella mentre abbracciati ascoltano il canto di un usignolo – il testo parla della morte di Fergal O’Hanlon, militante dell’IRA in un’azione terroristica contro “la crudele Inghilterra”. Registrata nel 1958, divenne ben presto una delle sue canzoni più celebri. Con alcune censure al testo – che indignarono Beham – in particolare di una strofa che parlava del piacere di sparare ai poliziotti, divenne uno dei cavalli di battaglia nei live del gruppo americano Clancy Brothers. Fu tramite loro che Bob Dylan si avvicinò alla canzone. Nel 1963, riciclandone la melodia scrisse un nuovo testo, With God on our side, creando di fatto una nuova canzone che ne amplificava il messaggio per adattarlo alla realtà americana, criticandone la politica di aggressione adottata lungo l’intero arco della sua storia e giustificata dall’avere “Dio dalla propria parte”, ciò che poi sarebbe diventato il principio di “esportazione della democrazia”. In particolare, con un colpo di genio che Beham non capì e non gradì, ritenendolo una parodia della propria canzone, Dylan riprende alcuni suoi versi rovesciandone il significato. I versi di Beham, dedicati ad una sola persona, dicono esplicitamente: “My name is O'Hanlon, I've just gone sixteen” (“Il mio nome è O’Hanlon, ho appena compiuto sedici anni”) indentificando la voce narrante con quella del ragazzo ucciso nella lotta per la libertà dell’Irlanda. Ne fanno un eroe. Quelli di Dylan invece dicono: “Oh, my name, it ain't nothin', my age, it means less” (“Il mio nome non conta, e la mia età ancora meno”) perdendo nell’anonimato il possibile narratore, perché nella storia di soprusi che sta per raccontare non ci sono eroi, sono tutti indistintamente coinvolti come colpevoli e vittime. Poco dopo averla scritta Dylan incontrò Beham che lo accusò apertamente, assai prima di Joni Mitchell, di essere “un ladro e un plagiario” rifiutandosi di fargli causa per avergli soffiato la melodia, ma minacciando di prenderlo a pugni. Forse per via di quella lite, o forse perché la sentiva ormai troppo politicizzata per i suoi gusti, Dylan da metà anni ’60 in poi, evitò per molti anni di cantarla. La riprese, per quanto sporadicamente, a partire dai primi anni ’80, probabilmente su sollecitazione di Joan Baez che l’aveva in repertorio. Nel 1989 Behan morì, e nello stesso anno i Neville Brothers fecero una bellissima versione di With God on our side prodotta da Daniel Lanois, aggiungendo una strofa sulla guerra del Vietnam che mancava all’originale di Dylan e che egli stesso, ammirato, adottò.

chi cambierà il mondo?

KUHLE WAMPE: O A CHI APPARTIENE IL MONDO? è un altro film pochissimo conosciuto in Italia, ed è uno dei capolavori del cinema proletario tedesco. Girato nel 1932 da Slatan Dodow col fortissimo coinvolgimento di Bertolt Brecht, che firma la sceneggiatura, è un film che parla di un tema tanto attuale negli anni Trenta del secolo scorso, all’indomani della crisi del ‘29, quanto lo è ancora oggi, a un secolo di distanza: la mancanza di lavoro. Per la sua dichiarata denuncia dei meccanismi speculativi che impoverivano e sfruttavano a fini politici la popolazione affamata, il film venne censurato in patria dai nazisti, poi distrutto e restaurato attraverso alcune copie circolate all’estero. Suddiviso idealmente in cinque parti, più o meno autonome, appare particolarmente coinvolgente la prima, in cui il regista dimostra di aver assimilato l’estetica del cinema russo: un ragazzo cerca lavoro, ma nonostante passi le sue giornate girando come un forsennato per Berlino (in bicicletta, sulle musiche bellissime di Hanns Eisler) non ne trova uno: rientrato, rimproverato persino in famiglia di non impegnarsi abbastanza e incolpato del fatto che presto verranno tutti sfrattati per colpa sua, si suicida gettandosi dalla finestra, al che una vicina commenta “un disoccupato di meno”. A questa parte, quasi completamente priva di dialoghi, si contrappone l’ultima, tutta parlata e girata in metropolitana, dove un gruppo di socialisti, fra cui la sorella del ragazzo morto – interpretata da Hertha Thiele, già protagonista di Ragazze in uniforme, altro grande film di denuncia – dopo aver partecipato a una manifestazione di protesta, tornano a casa in un vagone gremito all’inverosimile. I corpi dei borghesi e dei manifestanti sono addossati l’uno all’altro e non c’è possibilità di azione, solo primi piani e dialoghi. A partire dalla lettura di un articolo di giornale che descrive una crisi del caffè in Brasile, comincia una lunga discussione, di carattere tipicamente brechtiano, sulle manovre speculative che usando questa crisi all’apparenza lontanissima come scusa porteranno ad affamare ancora di più il popolo tedesco. I pareri sono divergenti. A un certo punto un borghese, interrogato da un amico su cosa ne pensa, dice che non potranno certo essere loro due a cambiare il mondo, ma allora, ci si chiede tutti, chi sarà a cambiare il mondo? – Quelli a cui non piace, risponde una ragazza socialista sul finale.