Blue Jasmine, di Woody Allen |
Ho visto ieri il nuovo film di Woody Allen, Blue Jasmine, e il primo commento che mi viene in mente, a caldo, per tutti quelli che periodicamente vengono a pontificare che Allen è finito, è : Tiè!
Blue Jasmine è bello, ascrivibile a quel particolare gruppo di opere troppo sofisticate, e al contempo soffuse, per entrare nel novero dei suoi capolavori: non colpisce allo stomaco come Match Point, per intenderci, ma non è nemmeno di presa immediata come Pallottole su Broadway. Sta nel mezzo, insieme ad altre sue piccole gemme come Interiors, Settembre o Un’altra Donna, tutte guarda caso incentrate sui temi della femminilità e della nevrosi, che stimolano Allen su più piani, dal narrativo all’esistenziale.
Nello specifico ho letto molte recensioni sul film e devo dire che, più che una critica vera e propria al sistema economico, come molti lo hanno interpretato (secondo me a sproposito), è da considerarsi una parabola sull’autoinganno, sull’incapacità di crescere e affrontare consapevolmente la vita.
Jasmine, interpretata da Cate Blanchett, è una creatura incapace di accettarsi. Cerca costantemente, per tutta la vita, di essere un’altra persona, migliore di quella che si sente: una bambina adottata, ci fa sapere Allen. Cambia il suo nome, sposa un uomo ricco, ripudia quasi la sorella adottata a sua volta. Tutto ciò che le ricorda le sue origini. Vive in un mondo di perenne sogno adolescenziale, quello delle principesse salvate dai principi. E quando il principe si scoprirà essere nient’altro che un truffatore, quello che sconvolgerà Jasmine, più che la fine dello stesso matrimonio, sarà la fine del sogno.
È talmente egocentrico questo personaggio (in senso propriamente psicanalitico) che quando rischia di tornare coi piedi per terra per l’abbandono del marito, preferisce distruggere la felicità di tutti coloro che la circondano, dalla sorella al figlio, piuttosto che rinunciare lei sola alla sua gabbietta dorata, da cui guardare il mondo senza mai spiccare il volo. E nemmeno alla fine, quando cercherà di ricostruirsi una vita col nuovo compagno, riuscirà a smettere di mentire e così autoilludersi.
In questo senso Jasmine, figura tragica quanto patetica può intendersi come un’evoluzione, o riscrittura attualizzata di Cecilia, protagonista de La rosa purpurea del Cairo: anche lei, infatti, preferisce vivere un sogno piuttosto che la realtà, pagandone lo scotto. Stavolta, però, lo sguardo di Allen è più cinico nel tratteggiare una serie di personaggi tutti a loro modo gretti, dalla sorella buona ma in sé sconfitta, insignificante, perennemente attratta da cialtroni, fino ai suoi bambini brutti e obesi, passando per il figlio ingrato e tossicomane di Jasmine. A differenza che in passato, in altri film di forte impatto morale (uno per tutti Crimini e Misfatti) dove c’era perlomeno un personaggio positivo che fungeva da contraltare alla corruzione del mondo, ormai nell’universo narrativo di Allen non sembra più salvarsi nessuno. Tutti sono sconfitti in partenza, e a noi non resta da offrire loro che il nostro perdono o la pietà.
Blue Jasmine è bello, ascrivibile a quel particolare gruppo di opere troppo sofisticate, e al contempo soffuse, per entrare nel novero dei suoi capolavori: non colpisce allo stomaco come Match Point, per intenderci, ma non è nemmeno di presa immediata come Pallottole su Broadway. Sta nel mezzo, insieme ad altre sue piccole gemme come Interiors, Settembre o Un’altra Donna, tutte guarda caso incentrate sui temi della femminilità e della nevrosi, che stimolano Allen su più piani, dal narrativo all’esistenziale.
Nello specifico ho letto molte recensioni sul film e devo dire che, più che una critica vera e propria al sistema economico, come molti lo hanno interpretato (secondo me a sproposito), è da considerarsi una parabola sull’autoinganno, sull’incapacità di crescere e affrontare consapevolmente la vita.
Jasmine, interpretata da Cate Blanchett, è una creatura incapace di accettarsi. Cerca costantemente, per tutta la vita, di essere un’altra persona, migliore di quella che si sente: una bambina adottata, ci fa sapere Allen. Cambia il suo nome, sposa un uomo ricco, ripudia quasi la sorella adottata a sua volta. Tutto ciò che le ricorda le sue origini. Vive in un mondo di perenne sogno adolescenziale, quello delle principesse salvate dai principi. E quando il principe si scoprirà essere nient’altro che un truffatore, quello che sconvolgerà Jasmine, più che la fine dello stesso matrimonio, sarà la fine del sogno.
È talmente egocentrico questo personaggio (in senso propriamente psicanalitico) che quando rischia di tornare coi piedi per terra per l’abbandono del marito, preferisce distruggere la felicità di tutti coloro che la circondano, dalla sorella al figlio, piuttosto che rinunciare lei sola alla sua gabbietta dorata, da cui guardare il mondo senza mai spiccare il volo. E nemmeno alla fine, quando cercherà di ricostruirsi una vita col nuovo compagno, riuscirà a smettere di mentire e così autoilludersi.
In questo senso Jasmine, figura tragica quanto patetica può intendersi come un’evoluzione, o riscrittura attualizzata di Cecilia, protagonista de La rosa purpurea del Cairo: anche lei, infatti, preferisce vivere un sogno piuttosto che la realtà, pagandone lo scotto. Stavolta, però, lo sguardo di Allen è più cinico nel tratteggiare una serie di personaggi tutti a loro modo gretti, dalla sorella buona ma in sé sconfitta, insignificante, perennemente attratta da cialtroni, fino ai suoi bambini brutti e obesi, passando per il figlio ingrato e tossicomane di Jasmine. A differenza che in passato, in altri film di forte impatto morale (uno per tutti Crimini e Misfatti) dove c’era perlomeno un personaggio positivo che fungeva da contraltare alla corruzione del mondo, ormai nell’universo narrativo di Allen non sembra più salvarsi nessuno. Tutti sono sconfitti in partenza, e a noi non resta da offrire loro che il nostro perdono o la pietà.